Quando all’Apparita c’era la miniera di lignite

Quando all'Apparita c’era la miniera di lignite

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Guidato dalla curiosità, ho deciso di occuparmi di un argomento oramai perso nei decenni e divenuto una sorta di leggenda per noi abitanti del posto: la miniera di lignite dell’Apparita.
Ho avuto la fortuna di intervistare alcuni dei testimoni diretti, risalendo così a molti dettagli che mai avrei immaginato di cogliere.

Primo testimone fra tutti, Vittorio Desideri, da 84 anni residente a l’Apparita di Vinci e visitatore della miniera stessa ai tempi in cui era ancora in funzione.
L’attività di estrazione di carburante all’Apparita ha coperto all’incirca il periodo compreso tra il 1945 e il 1955, e il tutto veniva svolto in un appezzamento di terreno all’epoca appartenente ad Antonio Desideri (conosciuto come “Mario”), zio paterno di Vittorio. La proprietà costeggiava l’attuale via di San Pantaleo all’altezza del civico 160, lo stesso terreno oggi coltivato a viti e privo di qualsiasi traccia di un precedente scavo. (foto 1)
A capo vi era una società di persone, la quale aveva in usufrutto il terreno in questione, sede dell’ingresso principale dello scavo. La società era dunque formata da Pierozzi, Cammilli e da un certo Cresti, originario di Siena.
Si estraeva per l’appunto, la lignite, una sorta di carbon fossile non di ottima qualità, formato col tempo e le condizioni necessarie alla fossilizzazione, partendo dai resti lignei di una folta foresta risalente a circa 80 milioni di anni fa.
Da buon combustibile, la lignite era principalmente destinata ad alimentare i treni a vapore dell’epoca: una volta estratta veniva trasportata tramite furgoni ai depositi di Firenze per le Ferrovie Dello Stato dove, una volta essiccata, era subito pronta ad ardere nelle camere delle locomotive.

L’estrazione avveniva in modo manuale: con l’aiuto di pala, piccone, e un piccolo lume a carburo a illuminare le buie gallerie, si staccava la materia prima dalle pareti e il tutto veniva trasportato in superficie servendosi di piccoli carri su rotaia e argani, gli stessi che facevano salire e scendere gli operai dal pozzo principale.
La struttura, infatti, non era la classica galleria da film che tutti ci immaginiamo: dai racconti di Vittorio si capisce che vi era un foro principale nel terreno di circa un metro e mezzo di diametro e profondo una ventina di metri, armato a cemento. Sul fondo del suddetto pozzo, poi, si diramavano tre diverse gallerie che seguivano le vene lignee le quali, a differenza del pozzo, venivano armate a tronchi e pali di pino con una tecnica da maestri ben precisa. Non era raro, però, che queste impalcature cedessero e inevitabilmente non erano rare le frane e gli incidenti, con feriti che lamentavano vertebre schiacciate.
Tra incidenti e disagi del lavorare a venti metri di profondità, poco prima di esser esaurito, lo scavo incrociò la rotta di una capiente vena d’acqua sotterranea. Fu così necessario l’intervento di idrovore, che pompavano acqua in superficie fino alla fossa della strada, da tutti conosciuta come “La Maddalena”.

Oltre alla miniera dell’Apparita, si ricordano altri punti di estrazione limitrofi che però avevano una struttura da miniera più classica, ovvero quella di una o più gallerie dirette dalla superficie sino al punto di prelievo.
Questo rende l’antico sito dell’Apparita ancora più affascinante, un particolare luogo di fatica che ha sostenuto molte famiglie del posto, nel difficile periodo del dopoguerra.

foto 1