La storia e aneddoti sulle “vasche di Vinci” (altrimenti detti anche “pilloni”)

Scoperta l’origine vinciana (sarebbe stato opportuno dire vinciarese, secondo l’idioma locale) dell’espressione “ a buco pillonzi”, che rimanda alla presenza nel borgo leonardiano di vari lavatoi pubblici, detti anche “pilloni”, vi raccontiamo quante erano le effettive “vasche” di Vinci e la vita paesana che vi ruotava intorno. Il tutto grazie all’articolo di Tiziana Berni.

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Nei giorni successivi il Ferragosto la mia lavatrice ha cominciato a fare i capricci e, dato il periodo,  non è stato facile trovare velocemente un tecnico per aggiustarla. Ho avuto così modo di considerare la grande utilità di questo elettrodomestico, un valido aiuto soprattutto per noi signore.  Difatti prima dell’avvento della lavatrice fare il bucato a mano, prerogativa delle donne, era una cosa molto faticosa. Anche se ho già compiuto 70 anni, non ho mai visto fare il bucato nella conca di terracotta ma mia suocera (nata nel 1910) mi raccontava spesso con dovizia di particolari il procedimento lungo e laborioso con l’uso della cenere, della lisciva, dell’acqua bollente ecc. 

Tengo bene a mente, invece, che da bambina negli anni Cinquanta andavo con nonna alle “vasche”, come si chiamavano a Vinci i lavatoi pubblici, situati in Via Montalbano, alimentati dall’acqua proveniente dalla Gora della Doccia (sulla “Strada Verde”). Nonostante una parte delle abitazioni di paese fosse dotata di acqua corrente, molte donne optavano per i comodi lavatoti pubblici, provvisti di grandi vasche rialzate da terra, per lavare e risciacquare, con piani inclinati ideali per insaponare e stropicciare i panni. C‘era anche una vasca per il turchinetto, una sostanza colorante azzurra, finemente polverizzata, che veniva sciolta nell’acqua per conferire alla biancheria un bianco azzurrognolo. Negli anni Trenta/Quaranta erano sicuramente “a cielo aperto” (successivamente venne fatta una copertura, costruito al di sopra un edificio con i bagni pubblici) perché mio padre mi raccontava “in gran segreto, con tanto di nomi e cognomi” che alcuni ragazzacci di Vinci a volte si divertivano a lanciare dal muro a fianco di Via Montalbano dei grossi sassi che piombavano in acqua facendo sobbalzare di paura le sfortunate intente a lavare che dovevano subire una doccia poco gradita. Nelle calde giornate estive accompagnavo volentieri nonna a lavare i panni perché mi sentivo utile (il mio compito era risciacquare i fazzoletti, le federe, i calzini) ma soprattutto perché avevo modo di stare in compagnia (c’erano anche altre bambine), ascoltare storie, tante chiacchere, pettegolezzi, a volte si cantava, insomma era per me un bel divertimento. Ripenso con nostalgia a quel cicaleccio allegro, segno di un paese vivace e laborioso. Il lavatoio, infatti, non era più un luogo di fatica ma si trasformava per tante paesane in un momento di leggerezza, di evasione dalla monotonia della quotidianità. Rientrate a casa (Via Quarconia), stendevamo il bucato ai fili di ferro posizionati sotto le finestre aspettando il ritorno di nonno dal lavoro per riferirgli subito le ultimissime notizie. La frase di nonno (Beppe la Guardia) era sempre la stessa: “Ovvia, sentiamo il Gazzettino!” e non ci scoraggiava neppure l’espressione del suo viso che denotava parecchia rassegnazione e poco interesse.

In paese esistevano anche altre vasche, due a cielo aperto “in cima Vinci”, sulla strada sterrata che conduce nel Bosco Fondo, parallela a Via Cino da Pistoia, mentre le signore della “Madonna” (Vinci basso) potevano usufruire del fabbricato di Via Lamporecchiana, vicino al Rio dei Morticini, nei pressi dei Macelli Pubblici.

Nel 1963, all’età di undici, mi trasferii in una palazzina di quella strada e qualche volta ho utilizzato le vasche, per la verità allora non molto frequentate. Nonostante avessimo tutte le comodità nella nuova abitazione, io e una coinquilina mia coetanea, con la scusa di lavare qualche abitino, in alcuni pomeriggi d’estate, ci rifugiavamo in quel luogo fresco e silenzioso in cui potevamo parlare tranquillamente senza essere disturbate. All’epoca i lavatoi erano una costruzione rettangolare coperta da un tetto, piuttosto rovinata, ma le vasche  erano in buone condizioni e l’acqua si presentava sempre pulita.

Con l’andare del tempo, il progresso, l’uso della lavatrice in molte famiglie, sempre meno signore ricorrevano ai lavatoi e pian piano quei singolari fabbricati sono andati scomparendo.

In via Montalbano le vasche sono state distrutte ma esiste tuttora l’edificio, destinato ad altro uso, mentre la costruzione di Via Lamporecchiana, ormai pericolante, è stata demolita all’inizio degli anni Ottanta (in prossimità del rio si può notare ancora oggi lo spazio dove sorgeva).

E’ certo, comunque, che i lavatoi non solo sono stati fondamentali per l’igiene personale e della casa ma anche, diremmo oggi, un punto di aggregazione, una testimonianza concreta della vita sociale delle generazioni passate dalle quali dovremmo imparare qualcosa di più sull’”Arte del Vivere”. Visitando alcune città o paesi della Toscana ho avuto modo di ammirare alcuni antichi lavatoi ben conservati e, indipendentemente dalla loro struttura imponente o modesta, questi “manufatti” conservano intatto il loro fascino ed è come “leggere la storia su un libro vivente”.

Ringrazio le amiche che hanno condiviso i loro ricordi.

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