I vinciaresi e la superstizione

I vinciaresi e la superstizione

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In questa nuova era stracolma di tecnologia sembra che l’uomo stia quasi per estinguersi, sostituito dall’intelligenza artificiale e dai robot. Tuttavia, anche le persone più proiettate verso il futuro non riescono a scrollarsi di dosso alcuni piccoli difetti che si chiamano superstizioni, grazie alle quali ci ricordiamo di essere ancora comunissimi mortali.

Il mondo della superstizione, un mix di credulità, saggezza degli anziani e un po’ di magia, che ha trionfato nei secoli scorsi, non ha chiuso i battenti, anzi ha preso campo in diversi soggetti, non esclusa una parte di giovani. Tralasciando di parlare di chi resta intrappolato nella rete di falsi maghi e curatori, posso assicurare che molti di noi, pur spergiurando di non essere superstiziosi, non vanno a tavola se i commensali sono 13 (semmai si apparecchia per il quattordicesimo ospite inesistente); si sgomentano se versano l’olio e rabbuiano in viso se rompono uno specchio (sette anni di disgrazie).
Inoltre non è raro vedere corni rossi, più o meno piccoli, attaccati agli specchietti delle auto ed è sempre opportuno tenere in casa una bella filza d’aglio, utile per cucinare e anche per altro, nel caso ce ne fosse bisogno, a conferma di quanto era solito dire Eduardo De Filippo: “Essere superstiziosi è da ignoranti ma non esserlo porta male”.
Io, che sono del secolo passato, non ricordo tra la gente Vinciarese, assai realistica, persone particolarmente superstiziose, ma, soprattutto in gioventù, ho notato a volte comportamenti bizzarri.
Per esempio, alcuni paesani, pur di non passare sotto una scala, facevano giri lunghissimi e se un gatto nero attraversava la strada non esitavano a tornare indietro.
Comunque quasi tutti a Vinci seguivano i dettami del famoso proverbio “Né di Venere, né di Marte, non si sposa, né si parte e non si dà principio all’arte”. Gli uomini in genere non badavano a certe quisquilie, ma non avevano voglia di scherzare se si trattava di fattura e malocchio. Alcuni contadini, alti e grossi come armadi, sostenevano di non credere nemmeno all’acqua calda, eppure nelle loro stalle di solito era presente un grosso ferro di cavallo. Questo talismano contro il malocchio veniva posto, con le punte rivolte verso l’alto, vicino all’immagine del Cristo, della Madonna o di Sant’Antonio e l’accostamento imbarazzante tra sacro e profano era assai frequente e – sembra – alquanto efficace.
Le donne erano più influenzate degli uomini da un antico retaggio di credenze contadine e dunque “Guai a lasciare fuori di notte i panni dei bambini”, perché era viva la convinzione che, dopo il calare del sole, gli spiriti cattivi si annidassero nei vestiti per poi entrare nel corpo dei piccoli e farli ammalare.

Il 2 novembre, soprattutto nella campagna, alcune massaie, con la scusa di essere troppo stanche, lasciavano la tavola apparecchiata perché in cuor loro, sebbene con una certa trepidazione, speravano che i morti venissero a visitare la casa.
Mia nonna, nata nel 1900 e vissuta sempre a Vinci, all’inizio della stagione invernale era solita mettere in tasca del cappotto una castagna d’India a tre canti, con lo scopo di allontanare i malanni del raffreddore. Inoltre, allo spuntare della luna nuova, faceva tre piccoli genuflessioni, pronunciando queste parole: “Luna nuova, luna nuova, portami fortuna”. Non ha mai rivelato chi le avesse insegnato questo piccolo rituale che mi faceva tanto ridere, ma di certo è stata raffreddata raramente ed è stata energica fino a 89 anni.

Anche mia madre, persona insospettabile, credente e molto pia, aveva il suo punto debole e difatti era ossessionata dal canto della civetta, presagio di disgrazia. Mi torna in mente una notte burrascosa di un inverno lontanissimo, quando mamma, verso le tre, fu svegliata dal canto sinistro di una civetta, abbastanza vicina. Subito chiamò mio padre che dormiva alla grossa: “Senti la civetta come canta, porta male!”. Babbo, svegliato all’improvviso, non comprese bene le parole e riuscì solo a farfugliare: “Per favore fammi dormire, devo alzarmi presto per andare al lavoro”. Passata una ventina di minuti ecco cantare di nuovo la civetta e mamma, sempre più preoccupata: “Leonardo, la civetta ha cantato un’altra volta, poveri noi, che succederà?”. Mio padre (affatto superstizioso) aprì gli occhi e, per quanto scocciato, cercò di far ragionare mamma, che si calmò un poco, così riuscirono ambedue a riprendere sonno. Dopo dieci muniti, però, quella dannata civetta cantò per la terza volta e in casa mia successe il finimondo: mamma si alzò dal letto spaventatissima e fece un tal rumore da svegliare non solo babbo ma anche noi figlie che dormivamo tranquille nella nostra camera. A quel punto mio padre, arrabbiatissimo, sbottò: “Accidenti a quell’uccellaccio, gli pigliasse un colpo!”. Non ci crederete, ma al mattino trovammo la povera civetta morta stecchita davanti il garage, forse stroncata dal freddo della notte o forse no…

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