La Natività della Vergine e i pirulini vinciaresi

Una festa smarrita fra storia, aneddoti, leggende e opera d’arte. Con un richiamo alla rificolona.

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Esiste un’opera di Leonardo nel suo paese natale? Oggi si esclude, salvo naturalmente qualche felice riscoperta. Tuttavia, nel passato gli abitanti di Vinci erano convinti del contrario e ritenevano, almeno fino al XVII secolo, di possedere un’opera di Leonardo, una Natività della Vergine, proprio nella chiesa di Santa Croce.
Si trattava chiaramente di una tradizione orale molto importante, al punto che arrivò addirittura alle orecchie, prima dei dignitari di Corte, poi del Granduca, nel nostro caso, Cosimo III, spesso da queste parti, avendo una villa a Cerreto Guidi. Naturalmente fu subito orchestrato dai machiavellici dignitari lo stratagemma per sottrarre ai poveri vinciaresi tale opera, sostenendo che l’asserto quadretto si trovasse in una cappella della Serenissima Casa Medici della Prioria di Vinci. Come tutti gli storici locali insegnano, una simile cappella non c’è mai stata a Vinci.

Come era d’uso nel tempo, tuttavia, riconosciuta la mano del Maestro, il Granduca si sarebbe ripreso l’opera, in verità mai commissionata, per inserirla nelle Gallerie Fiorentine. In caso di resistenza della popolazione, l’opera sarebbe stata sostituita con una copia, come era avvenuto in altre località.
Si ricordano casi simili, assai clamorosi – per esempio a Pescia – proprio per non dispiacere ai sudditi inferociti.

La curiosa vicenda è stata interamente ricostruita da Renzo Cianchi, grazie alle ricerche presso l’Archivio Mediceo, e pubblicata per la prima volta sul settimanale pistoiese La Vita, nel dicembre 1978. Dalla corrispondenza del 1682 fra il segretario di Stato, Antonio Bassetti, e il pittore “Architetto di Sua Altezza Serenissima” Pier Maria Baldi, incaricato dei sopralluoghi, si viene a sapere che il segretario di Stato, incuriosito dalle voci di popolo su di una pala di Leonardo, si sarebbe recato a Vinci, avrebbe visto il quadro e pur rimanendo scettico avrebbe chiesto un parere autorevole al tecnico di fiducia “perch’io per le poche cose vedute dell’Autore non mi arrisico à crederla sua quantunque vi siano alcuni putti assai belli, e di gran rilievo” (lettera del 8.12.1682). Nella terza lettera rinvenuta dal Cianchi, lo scettico Bassetti sollecita ancora il Baldi affinché si recasse a Vinci a vedere la pala e brevissimamente la descriveva: “rappresenta il Nascimento della Vergine Santissima, con diverse figure benissimo istoriate, ma di tinte sì fresche, che ciò solo par che renda sospetto il Nome dell’Autore, quantunque La tradizione di tutti i vecchi del Castello La ascriva a Lui” ( dalla lettera del 12.12.1682).

Purtroppo non abbiamo la risposta scritta del Baldi, che relazionava direttamente a voce al dignitario di corte. È certo che da allora la tradizione orale di un’opera leonardiana a Vinci scomparve del tutto, salvo qualche reiterata voce che ogni tanto compare su presunte opere giovanili presenti nel territorio, mai confermate.
Dalla vicenda storica emerge che il quadro in oggetto era una Natività della Vergine, ancora presente nella Chiesa di Vinci. L’opera, tuttavia risulta datata, esattamente MDLXII (1562) fra le pieghe dell’asciugatoio bianco, a sinistra di chi guarda. Per cui risulta ancora più strano il clamore, per non dire il baccano che si era venuto a creare intorno a tale opera alla fine del Seicento.
Le successive attribuzioni non sono molto entusiastiche, almeno da parte di chi le ha compilate. Se in una vecchia catalogazione della Sovrintendenza alle Gallerie viene indicata come “copia seicentesca di una composizione manieristica del tardo ‘500 toscano, forse di una opera di Sebastiano Vini, molto scadente”, come riporta il Cianchi nel suo articolo, la più recente critica l’attribuisce alla bottega di Francesco Brina, con un soggetto peraltro ripreso da una stampa nordica di Cornelis Cort (cfr. R. Proto Pisani-G. Romagnoli, Vinci di Leonardo, pag. 223). La vicenda comunque induce a un’osservazione e a un sospetto.
La prima, come annota il Cianchi, è quella relativa alla considerazione e al rispetto che i vinciaresi (all’epoca si chiamavano ancora così) avevano di Leonardo. Nel 1600, il popolo di Vinci era già pienamente consapevole di avere una vera e propria “gloria” in casa, la cui fama peraltro sarebbe ancora aumentata nel tempo fino a diventare un mito.
La seconda è più di carattere storico. La Cappella dei Medici a Vinci – come tentava di sostenere il segretario di Stato – non è mai esistita, bensì – e a questo punto si lascia lo scritto direttamente al Cianchi – “il benefizio della Cappella o Altare della Natività di M.V. – i cui obblighi sono tuttora vigenti ed hanno preciso riferimento alla festività ricorrente l’8 settembre – è di origine antichissima“.
Se ne hanno notizie dal 1432 (forse l’anno stesso della fondazione) in atti del notaio Ser Giovanni di Ciuccio da Empoli, nell’Archivio di Stato di Firenze. In un contratto, poi del 1570, del notaio Mascherino Mascherini da Montecatini in Val di Nievole, esistente nell’archivio vescovile di Pistoia, si attesta che i capitani e consiglieri del Comune di Vinci (ripetiamo: non la famiglia Medici) ne sono qualificati per patroni “ab immemorabili” (cit. La Vita, 7.1.1979)
Viene da porsi una domanda: se l’altare fu costruito nel 1432, con patroni addirittura i capitani e i consiglieri del Comune di Vinci, perché vi si trovava una pala datata 1562? Che cosa c’era prima? Non è che qualcuno forse, prima dei Medici, avesse già sostituito un quadro più antico, che la gente del posto continuava ad attribuire al grande vinciano?

La pala della Natività della Vergine è ancora esposta nella chiesa di Santa Croce di Vinci. Si lascia al visitatore ogni considerazione. Merita una visita, pur non essendo palesemente opera di Leonardo o bottega, e uno sguardo, curioso per la vicenda narrata dal Cianchi, ma anche attento per quei pregi artistici che il Bassetti tuttavia gli attribuiva.
L’8 settembre, giorno dedicato alla Madonna, di cui si ricorda la Natività, è legato nell’immaginario collettivo a un altro evento, più popolare: le “rificolone”, protagoniste della notte tra il 7 e l’8 settembre a Firenze, rese celebri dal famoso coro contenuto nell’operetta L’acqua cheta di Novelli e Petri (peraltro spettacolo di punta del repertorio della vinciana, ormai storica, Filodrammatica ‘Leonardo da Vinci’).
Sono festeggiate in gran parte del contado fiorentino; in Valdelsa, per esempio, ancora oggi a Castelfiorentino; qualche anno fa a Vinci.
La rificolona – di fatto un lampioncino di carta con la luce dentro, ad imitazione delle vecchie lanterne e lucerne dei contadini – è una tradizione toscana, con poco a vedere con la lanterna cinese!
La festa è legata all’abitudine dei montanari di recarsi a salutare la Madonna presso il più vicino santuario prima di partire per il pascolo invernale, proprio in occasione della festa della Natività della Vergine.
Tutto ciò spiega la diffusione della festa in diversi luoghi della Toscana. A Firenze, chiaramente, fin dalla notte precedente, i montanari e i contadini venivano in massa al santuario della SS. Annunziata. Da parsimoniosi “cervelli fini” sfruttavano l’occasione per vendere anche i loro prodotti, per lo più filati e funghi secchi. Quella sfilata di persone con le lanterne che camminavano per la città non poteva sfuggire all’ironia dei fiorentini. Da qui l’idea della rificolona, a imitazione e rievocazione delle lanterne per fare il lume portate in cima a una canna dai contadini in pellegrinaggio alla chiesa della Madonna. Per tale motivo, secondo alcuni studiosi, il termine rificolona deriva dal latino “fiera coloni“, ovvero fiera del contadino; piuttosto che dalla derisione del “grande sedere” delle massaie contadine che invadevano la città (le fieraculone).

Ma cosa c’entrano i “pirulini“?
C’entrano, c’entrano! Come non poter sfuggire l’occasione di prendere di mira le rificolone con i pirulini di carta o di stucco sparati da cerbottane e cannucce di vario materiale? Un gioco da ragazzi.
E il ricordo inevitabilmente corre anche ai divertimenti di un tempo, agli scherzi tra compagni di scuola, alle invitanti capigliature delle belle bimbe che venivano prese di mira… altro che le rificolone!
Dice un vecchio proverbio toscano, nei modi di un indovinello, legato alle feste della Madonna (25 marzo e 8 settembre): “alla Madonna di marzo si scopano (ovvero si spolverano) e alla Madonna di settembre si trovano. Il riferimento è proprio alle lucerne!


Dama di Bacco